Un’impresa no-profit, imputata per truffa ai danni dello stato, ai sensi del D.Lgs. 231/2001, per il profitto conseguito a seguito di sovvenzioni ottenute in base a un programma UE, non può contestare l’illiceità dello stesso profitto (ottenuto e rimasto nelle proprie casse) in caso di patteggiamento.
La Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, con la sentenza n. 14835/2025, depositata il 15 aprile 2025, ha affrontato una vicenda significativa in materia di Truffa ai danni dello Stato e D.Lgs. 231/2001 ex art. 24, con riferimento diretto alla responsabilità amministrativa degli enti.
Il caso traeva origine dalla sentenza di patteggiamento emessa dal GIP presso il Tribunale di Verona nei confronti di un’impresa no-profit, accusata di aver percepito illecitamente fondi europei. All’impresa veniva riconosciuta l’attenuante prevista dall’art. 12 e, di conseguenza, la sanzione veniva ridotta a 100.000 euro.
Secondo l’accusa, l’impresa no-profit, avrebbe tratto un vantaggio economico illecito dalla gestione di fondi europei, risultando pertanto punibile con sanzione amministrativa.
Avverso la sentenza veniva proposto ricorso per cassazione.
La difesa lamentava, in particolare, l’erronea qualificazione giuridica del fatto, sostenendo che, anche se l’impresa avesse ottenuto un profitto, questo non poteva considerarsi “ingiusto” in quanto compatibile con la normativa UE. Ciò metterebbe in discussione l’intera configurazione della truffa ai danni dello Stato prevista dal D.Lgs. 231/2001 come reato presupposto.
Stando al capo di imputazione, il beneficiario del finanziamento avrebbe sostenuto il 20%dei costi e non avrebbe dovuto maturare alcun profitto, affermazione quest’ultima non corrispondente a verità in quanto l’impresa rientrante tra le associazioni “no-profit”, avrebbe potuto ricavare profitto dalle azioni del progetto senza incorrere in profili di illegittimità.
Sarebbe, dunque, insussistente il reato di cui all’art. 24 D.Lgs. 231/2001 in relazione all’art. 640 bis c.p. a fronte del fatto che il profitto, quand’anche maturato dalla società, non rappresentava quel carattere di illiceità necessario per l’integrazione del reato.
La Cassazione ha dichiarato infondato il ricorso, affermando, preliminarmente, come non posse ammissibile il ricorso per cassazione avverso una sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.
In particolare, il motivo relativo alla sussistenza del profitto in capo alla società, si è tradotto in una censura relativa al fatto storico, ossia che la società non avrebbe dovuto essere ritenuta responsabile dell’illecito contestato per mancanza di uno dei requisiti costitutivi della truffa.
Avendo la società ritenuto opportuno il rito alternativo dell’applicazione della sanzione su richiesta (cd. “patteggiamento”) non è ammissibile una ulteriore richiesta di revisione del fatto storico ed in particolare di uno dei presupposti del reato di truffa.
Per tale ragione, la cassazione ha affermato che “un’impresa no-profit, imputata per truffa ai danni dello stato, ai sensi del D.Lgs. 231/2001, per il profitto conseguito a seguito di sovvenzioni ottenute in base a un programma UE, non può contestare l’illiceità dello stesso profitto, ottenuto e rimasto nelle proprie casse, in caso di patteggiamento”.