La Corte di Cassazione – Sez. Lavoro – con ordinanza del 24 aprile 2025, n.10864 – ha accolto il ricorso presentato da un lavoratore licenziato per aver espresso via e-mail alcune critiche all’Amministratore delegato della società che avrebbe violato i protocolli aziendali anti – Covid.
Il Collegio, richiamando la giurisprudenza di legittimità in tema di diritto di critica e di tutela del c.d. whisteblower, ha ritenuto che il contenuto della segnalazione e la portata della stessa rientrino nell’attività di “Whistleblowing”, in quanto il lavoratore ha agito nell’interesse della sicurezza e della salute collettiva, esprimendo una preoccupazione legittima in merito a potenziali rischi sanitari per sé e per i colleghi.
Pertanto, la Cassazione ha stabilito che il nuovo Giudice di merito dovrà procedere alla reintegrazione del lavoratore ricorrente nel posto di lavoro e alla determinazione del risarcimento del danno commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegrazione, dedotto quanto percepito per altre attività lavorative svolte nello stesso periodo, nei limiti delle 12 mensilità.
Orbene, al fine di comprendere le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, occorre operare alcune brevi premesse.
Secondo quanto ricostruito dalla Corte d’appello di Milano, nel novembre del 2021, durante uno intenso scambio di email fra il lavoratore e l’Amministratore delegato, quest’ultimo aveva rappresentato l’intenzione di disporre la riunione tra i colleghi in presenza anziché a distanza, tramite collegamenti web.
Tuttavia, il dipendente, alla luce della perdurante esigenza di attenersi ai protocolli di difesa anti – Covid, si era opposto al tipo di incontro programmato dall’altra figura societaria.
La Corte, aderendo all’impostazione del Tribunale, ha ritenuto che la reazione avversiva del dipendente non si fosse, però, limitata a una contestazione composta e argomentata riguardo alle modalità di partecipazione in presenza, ritenute in contrasto con la normativa anti -Covid, ma si era progressivamente inasprita, assumendo toni particolarmente duri, anche quando l’interlocutore, nell’accogliere le rimostranze del sottoposto, aveva riorganizzato la riunione in modalità web, da remoto.
I giudici di secondo grado hanno condiviso le argomentazioni del Tribunale che aveva riscontrato nei messaggi inviati dal lavoratore «l’assestarsi di indebite ed eccessive considerazioni di ordine polemico/avversativo, a tratti ingiuriose, venate da insubordinazione nonché in grado di screditare il ruolo professionale dell’interlocutore».
Secondo la Corte, gli interventi del lavoratore si sarebbero concretizzati in un acceso sviluppo di un astio latente verso l’Amministratore Delegato, almeno in relazione alle sue prassi e/o condotte, manifestate attraverso critiche e contestazioni che non erano mai emerse precedentemente.
Orbene, la Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Monza, ha ritenuto sussistente il fatto ascritto al lavoratore e, pertanto, legittimo il licenziamento. Tuttavia, ha riconosciuto allo stesso una mera tutela indennitaria.
Avverso tale sentenza, il dipendente ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo quattro motivi di censura.
In via preliminare, ha evidenziato come la propria condotta dovesse essere qualificata come una denuncia di comportamenti in contrasto con il Codice Etico e, dunque, rientrante nell’ambito del legittimo esercizio dell’attività di whistleblowing.
Per tale ragione, il ricorrente ha lamentato nel primo motivo la violazione e falsa applicazione del D.lgs. n. 179/2017, in relazione a quanto previsto dal D.lgs. n. 24/2023, con specifico riferimento al Codice Etico, recepito nel contratto individuale.
Con il terzo motivo, invece, ha dedotto la violazione dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori, nonché dell’art. 238 del CCNL di categoria, evidenziando l’irrilevanza disciplinare dei fatti contestati e, di conseguenza, l’assenza di illiceità nella condotta del ricorrente, con il conseguente riconoscimento dei presupposti per la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
La Cassazione, esaminati congiuntamente il primo e il terzo motivo di impugnazione, li ha ritenuti fondati.
In tal contesto, la Suprema Corte sottolinea l’importanza del diritto di critica che trova fondamento nell’art. 21 della nostra Costituzione ove si riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, e nell’art. 10 della Cedu secondo cui “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione”.
Anche l’art. 1 dello Statuto dei lavoratori riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, e la necessità di contemperare tale libertà col rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo.
In particolare, la manifestazione del pensiero in chiave critica reca con sé, di regola, un giudizio negativo, di disapprovazione dei comportamenti altrui o di dissenso rispetto alle opinioni altrui e possiede, quindi, una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione.
Come si è osservato, qualunque critica rivolta ad una persona è idonea ad incidere sulla sua reputazione e, tuttavia, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione altrui, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (v. Cass. n. 12420 del 2008; n. 1434 del 2015; n. 38215 del 2021).
Affinché venga garantito il giusto bilanciamento fra il diritto di critica e il diritto all’onore e alla reputazione, la giurisprudenza impone il rispetto di determinati “limiti”, individuati nella continenza formale e sostanziale, legati rispettivamente alla correttezza e misura del linguaggio adoperato e alla veridicità dei fatti, nonché nel requisito di pertinenza, intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela in confronto con il bene suscettibile di lesione.
Con specifico riferimento al rapporto di lavoro, la Suprema Corte ha evidenziato che il limite di continenza espressiva può dirsi «esemplificativamente superato ove si attribuiscano all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira».
Invece, sempre nel contesto lavorativo, può essere considerato interesse meritevole quello che riguarda direttamente o indirettamente le condizioni di lavoro e quelle dell’impresa. Si pensi, ad esempio, alle rivendicazioni di carattere sindacale o le manifestazioni di opinione relativa al contratto di lavoro. Al contrario, superano il limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro afferenti le sue qualità personali, prive di qualsiasi correlazione con il rapporto contrattuale e mirate unicamente a ledere la sua onorabilità.
Proprio in tema di esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, la Cassazione ne ha affermato la legittimità qualora il dipendente si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza superare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, utilizzando modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa.
Tutto ciò premesso, secondo i giudici di legittimità, la Corte d’appello non avrebbe fatto buon governo dei principi enunciati, qualificando erroneamente come «esorbitante» il comportamento del ricorrente, nonostante l’assenza di critiche volgari, gratuite e infamanti, che sarebbero necessarie per «oltrepassare la barriera» del limite della continenza formale.
La Corte territoriale, partendo proprio dalla verità dei fatti storici e dalla assenza di gratuite espressioni di diniego, avrebbe dovuto procedere ad un’ analisi più scrupolosa al fine di verificare se i toni “più accesi” fossero frutto di una critica articolata e dello stato d’animo descritto, con specifico riferimento alla presunta errata gestione dei protocolli anti-Covid, o se, al contrario, costituivano un’offesa autonoma e gratuita, priva di collegamento con le rivendicazioni e il rammarico espressi, e volta esclusivamente a colpire l’operato dell’Amministratore Delegato.
Il licenziamento, in questo caso, è stato ritenuto sproporzionato rispetto alla condotta del dipendente, che non aveva agito con intenti offensivi o lesivi dell’immagine aziendale, ma piuttosto aveva sollevato una questione di sicurezza legata alla pandemia.
Invero, secondo la Cassazione, ulteriore elemento di conferma della bontà delle affermazioni del lavoratore, sono le segnalazioni effettuate dallo stesso anche al Comitato anti – Covid per sollecitare la verifica del corretto controllo e rispetto delle relative procedure da parte dell’Amministratore.
Pertanto, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza del fatto ascritto al lavoratore, rinviando per un nuovo giudizio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione.