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Messa alla prova: confermata la non applicabilità nei confronti degli Enti. Tra contrasti giurisprudenziali e prospettive di riforma.

Con la sentenza n. 22438, depositata il 14 giugno 2025, la Corte di Cassazione (IV Sez. Pen.) è tornata a pronunciarsi sull’ammissibilità dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (di cui agli artt. 168-bis c.p. e ss. e artt. 464-bis c.p.p. e ss.) nei confronti dell’Ente “imputato” ai sensi del d. lgs. 231/2001 (di seguito, “Decreto 231”).

Non discostandosi dal precedente orientamento di legittimità – già consolidato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 14840/2023 – con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione ha ribadito che la messa alla prova non è applicabile agli Enti.

La sentenza in commento origina dal ricorso per Cassazione proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Perugia avverso la sentenza con cui il Tribunale di Perugia aveva dichiarato di non doversi procedere nei confronti di una società imputata ai sensi dell’art. 25-septies del Decreto 231, per il reato di lesioni gravissime commesse con violazione della normativa in materia di salute e sicurezza, essendosi questo estinto per esito positivo della messa alla prova.

Il Tribunale di Perugia, infatti, aveva ritenuto di doversi discostare dal principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite nella già citata sentenza n. 14840/2023, ammettendo l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova anche all’Ente “imputato” ai sensi del Decreto 231 sulla scorta delle seguenti argomentazioni.

In via di sintesi, il Tribunale aveva ritenuto che la messa alla prova potesse trovare applicazione all’ente in ragione del rinvio effettuato dagli artt. 34 e 35 del Decreto 231, non ravvisando ragioni di incompatibilità dell’istituto con le peculiarità della responsabilità da reato degli enti.

Infatti, il Tribunale aveva ritenuto che la messa alla prova non potesse essere equiparata in toto ad una pena, posto che l’imputato (condannato) non partecipa in alcun modo a definire i contenuti del trattamento sanzionatorio mentre, diversamente, egli partecipa alla definizione dei contenuti del programma di trattamento definito per l’ammissione alla messa alla prova, dovendovi necessariamente prestare il proprio consenso.

Inoltre, l’esito positivo della messa alla prova – che comporta l’estinzione del reato – produrrebbe un effetto favorevole nei confronti dell’imputato e, come tale, può trovare applicazione anche in via analogica in quanto, da una parte, l’estensione analogica non produrrebbe effetti in malam partem e, dall’altra, le disposizioni concernenti l’istituto non assumo carattere eccezionale, come previsto dall’art. 14 delle c.d. Preleggi (R.D. 16 marzo 1942, n. 262 e ss.mm.ii.).

Infine, i contenuti applicativi e le finalità dell’istituto della messa alla prova – sia di natura riparatoria (ossia l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato), sia risarcitoria – possono essere ritenuti compatibili anche con le peculiarità della responsabilità giuridica da reato degli enti.

Nel caso di specie, infatti, l’ente aveva provveduto al risarcimento del danno nei confronti della persona offesa e dei prossimi congiunti, aveva implementato ed attuato un Modello organizzativo e aveva elaborato un programma di trattamento, d’intesa con l’U.E.P.E., in adempimento del quale aveva finanziato un corso di formazione in materia di salute e sicurezza presso un istituto scolastico locale e aveva versato ulteriori somme, in favore di un’associazione locale, finalizzate all’acquisto di DPI e di altro materiale utile per la sicurezza sul lavoro.

Come unico motivo di impugnazione, il Procuratore Generale ha dedotto la violazione degli artt. 168-bis c.p. e 464-bis e ss. c.p.p. nella misura in cui il giudice di merito, nel ritenere applicabile la messa alla prova nei confronti degli enti, nella parte motiva:

  1. aveva erroneamente valorizzato gli artt. 34 e 35 del Decreto 231, che contengono un rinvio alle norme del codice di rito penale in quanto applicabili, dato che l’inserimento dell’istituto della messa alla prova nel codice di rito è successivo alla previsione del rinvio di cui ai suddetti artt. 34 e 35 e, in assenza di un’indicazione espressa del legislatore, tali articoli non possono ritenersi comprensivi anche della messa alla prova;
  2. non aveva erroneamente considerato la diversità strutturale tra le tipologie di sanzioni penali applicabili all’imputato (ossia la detenzione o la pena pecuniaria) e quelle amministrative applicabili all’ente e, pertanto, le diverse funzioni a cui esse tendono;
  3. aveva individuato, quali contenuti del programma di trattamento dell’ente, attività non conformi a quelle individuate dall’art. 168-bis c.p. con specifico riferimento ai lavori di pubblica utilità o all’affidamento dell’imputato ai servizi sociali.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del Procuratore Generale, ha ritenuto che gli argomenti indicati dal giudice di merito nella sentenza impugnata non consentissero di superare le ragioni individuate dalla sentenza n. 14840/2023 delle Sezioni Unite a sostegno dell’inammissibilità della messa alla prova nei confronti degli Enti e, pertanto, non ci fossero le condizioni per rimettere nuovamente la questione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618, comma 1-bis c.p.p.

Per completezza è opportuno rilevare che, nell’ambito del tavolo tecnico instaurato dal Ministero della Giustizia sul progetto di riforma del d. lgs. 231/2001 attualmente in corso, da più parti è stata manifestata l’esigenza di inserire, in via espressa, l’istituto della messa alla prova anche nel procedimento penale a carico degli enti al fine di superare le incertezze applicative e i contrasti emersi in ambito giurisprudenziale.

In tal senso, infatti, si sono espressi – tra molti – Confindustria nel Position Paper di Marzo 2025 sulle prospettive di riforma della responsabilità amministrativa da reato e, da ultimo, anche l’Osservatorio nazionale sul d. lgs. 231/2001, istituito dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, nel documento “Riforma del d. lgs. 231/2001: osservazioni e proposte”.

Tale soluzione, infatti, permetterebbe di realizzare un contemperamento tra le esigenze di risocializzazione e ritorno alla legalità dell’ente – finalità che sono già proprie del Decreto 231 – e quelle di conservazione della continuità d’impresa e dell’attività produttiva, che può essere messa in pericolo non solo dall’applicazione di sanzioni interdittive, ma anche dall’applicazione di sanzioni pecuniarie, soprattutto se di rilevanti importi rispetto alle capacità economiche dell’ente interessato.

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