Con sentenza n. 16932 depositata il 6 maggio 2025, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del conflitto di interessi sussistente tra il rappresentante legale, indagato/imputato, del reato presupposto e l’ente, anch’esso coinvolto nel medesimo procedimento ai sensi del D.lgs. 231/2001.
In particolare, la vicenda riportata all’attenzione della Corte ha riguardato il giudizio di inammissibilità decretato dalla Corte di Appello di Salerno in ordine agli appelli proposti da due distinte società avverso la sentenza del Tribunale di Salerno che le aveva condannate alle sanzioni pecuniarie e interdittive di giustizia, in relazione agli illeciti amministrativi dipendenti dai reati di cui agli artt. 640-bis e 479 c.p., contestati ai rispettivi legali rappresentanti.
La sentenza di primo grado dava atto che nei confronti dei rappresentanti legali delle due società coinvolte erano state emesse, in separati procedimenti, due distinte sentenze di non doversi procedere per prescrizione, divenute irrevocabili nel 2010 e nel 2011.
I legali rappresentanti delle due società, dopo la sentenza di primo grado, avevano nominato due distinti difensori quali procuratori speciali al fine di proporre appello.
La Corte territoriale dichiarava gli appelli inammissibili per violazione dell’art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001, ritenendo che i rappresentanti legali versassero, rispetto agli atti di nomina, in una situazione di incompatibilità per conflitto di interessi, dovuta al fatto di essere stati indagati e poi imputati dei reati dai quali erano scaturiti gli illeciti amministrativi contestati alle società.
L’art. 39, più precisamente, impedisce alla persona fisica imputata dei reati da cui dipende l’illecito amministrativo, di partecipare al procedimento rappresentando l’ente.
La Corte di appello ha superato anche il rilievo difensivo volto a mettere in luce che, al momento della nomina dei difensori di fiducia, entrambi i legali rappresentanti non fossero più imputati, in quanto nei loro confronti era stata emessa sentenza irrevocabile di non doversi procedere per prescrizione, sull’assunto che:
“questa situazione di conflitto prescinde dall’attualità della qualifica di imputato di chi ha eseguito la nomina, posto che anche chi è stato, in passato, accusato dello stesso reato ascritto all’ente, pur prosciolto in maniera irrevocabile, si trova in conflitto di interessi con la società che, come si è detto, potrebbe avere interesse a dimostrare che il suo rappresentante ha agito nel suo esclusivo interesse o nell’interesse di terzi; a sua volta, invece, il legale rappresentante prosciolto per prescrizione ha tutto l’interesse a scongiurare una siffatta ricostruzione onde evitare conseguenze sfavorevoli che, ad esempio, ben potrebbero derivargli nell’ambito dei procedimenti civili o amministrativi concernenti i medesimi fatti ed aventi ad oggetto risarcimenti, restituzioni o anche sanzioni”.
Ricorrono per cassazione, con distinti atti, le due società imputate, in persona dei loro legali rappresentanti. Il ricorso sottolinea che la previsione di cui all’art. 39 del Decreto 231 costituisce un’eccezione alla regola secondo la quale l’ente partecipa in giudizio attraverso il proprio rappresentante legale e, come tale, non è suscettibile ad interpretazione estensiva, tale addirittura da ricomprendere l’ipotesi in esame, in cui non vi era stata contestualità tra l’assunzione delle qualità di imputato da parte del rappresentante legale e l’atto da lui compiuto nell’interesse dell’ente.
A supporto della tesi, le società ricorrenti richiamano sia il tenore letterale della norma e, in modo particolare, l’inciso “salvo che questi sia imputato”, ove è stato utilizzato dal Legislatore il congiuntivo presente e non passato, sia la circostanza che la declaratoria di prescrizione nei confronti del legale rappresentante, irrevocabile in epoca di gran lunga precedente all’atto di nomina del difensore, non potrebbe comportare più alcuna conseguenza per la sua posizione all’interno dell’ordinamento penale, non ammettendosi la revisione del processo se non in favore del soggetto che sia stato “condannato”.
La Corte di Cassazione ha accolto i ricorsi, ritenendo non condivisibile l’assunto del Giudice di secondo grado, per il quale la situazione di conflitto di interessi prescinderebbe dalla attualità della qualità di imputato o indagato del legale rappresentante dell’ente al momento della nomina del procuratore speciale, in primo luogo, proprio per il tenore letterale dell’art. 39 e per l’utilizzo del congiuntivo presente (“sia imputato”) senza aggiungere altro verbo al passato.
Altro aspetto ritenuto ostativo rispetto alla tesi della Corte di appello è relativo alla nozione stessa di “imputato”.
Il divieto di rappresentanza di cui si discute, nell’indicare a suo fondamento la qualità di imputato in un procedimento penale assunta dal rappresentante legale dell’ente, non può che fare riferimento alla nozione di imputato nel procedimento penale ed alle regole che la disciplinano e che si ricavano dall’art. 60 c.p.p., applicabile in tema di responsabilità da reato degli enti, in forza del generale rinvio di cui all’art. 34 D. 231.
Tale norma, al secondo comma, prevede che “la qualità di imputato si conserva in ogni stato e grado del processo, sino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna o sia divenuto esecutivo il decreto penale di condanna”.
Ulteriore rilievo a favore della tesi delle ricorrenti è rappresentato dal fatto che il divieto di rappresentanza previsto dall’art. 39 si pone come eccezione alla regola e, come talee, deve trovare applicazione attraverso un criterio di stretta interpretazione.
Decisione, dunque, più che mai “cucita su misura” al caso di specie e che si discosta dal principio di diritto tracciato, in materia, dalle Sezioni Unite Gabrielloni (Sent. n. 33041 del 28/05/2015) che, in un passaggio motivazionale precisano come il divieto contenuto nell’art. 39 si giustifica perché il rappresentante legale e la persona giuridica si trovano in una situazione di obiettiva ed insanabile conflittualità, da ritenersi presunta “iuris et de iure”, senza che sia necessario, a tal fine, un concreto accertamento del giudice.